Oggi, nel nostro appuntamento letterario, Daniela Carletti ci presenta il romanzo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar da La Biblioteca della Repubblica. Scopriamo insieme cosa ci svela su questa opera!
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Recensione di Daniela Carletti di Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar
«Davanti al tribunale della Storia»
Nei “Taccuini di appunti” in appendice al romanzo, la Yourcenar dice «Ci sono libri che non si dovrebbero osare se non dopo i quarant’anni» pag. 254. Lo stesso potrebbe dirsi per il lettore, quando la somma delle esperienze fa la differenza in termini di comprensione.
Di certo l’attuale momento storico aiuta a tracciare una similitudine: se infatti possiamo associare il racconto del capitolo finale sul disfacimento del corpo di Adriano (per vecchiezza, per malattia e per la sofferenza dell’anima), al disgregamento dell’impero romano (visto da questa prospettiva), oggi possiamo compiere un’ulteriore liaison con la morte della nostra civiltà, di cui siamo testimoni, sì, ma non silenti.
Pubblicato nel 1951 e vincitore del Prix des Critiques, “Mémoires d’Hadrien” poi tradotto in 40 lingue, è un’opera in “prosa poetica” all’insegna del lirismo più raffinato.
Non si tratta di un romanzo storico (ossia quella forma letteraria che non contraddice e non aggiunge invenzioni alla veridicità dei fatti storicamente certi), bensì di un’altra cosa; l’opera unisce realtà e immaginazione plausibile, costruite sulla base di fonti e documenti: di Adriano sono i testi amministrativi, i discorsi e le poesie, di Dione Cassio “Storia romana”, “Historia Augusta” di autori vari (è una raccolta di biografie dell’età imperiale), oltre alle fonti archeologiche come quelle, ad esempio, in mostra a villa Adriana.
Va detto che le “etichette” sui generi letterari, dovrebbe essere funzionali quasi esclusivamente alla gestione dei libri, senza entrare nel merito del componimento, specie poi quando l’opera, come quella in questione, figura nell’empireo dei capolavori; e questa, come etichetta, è di sicuro esauriente.
“Memorie di Adriano” è un capolavoro per la poesia delicatissima di cui è intessuta la prosa; è un capolavoro perché la scelta della forma è impeccabile in relazione al soggetto; perché affronta ogni tematica in modo esaustivo; perché la struttura di ogni capitolo è costruita su un crescendo che non danneggia quello di più ampio respiro del totale, e perché infine, è il frutto di una lunga ricostruzione che ha richiesto trent’anni di lavoro.
Riportando una frase di Flaubert, spiega la Yourcenar sempre nei “Taccuini di appunti” «“Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”, avrei trascorso una gran parte della mia vita a cercare di definire, e poi descrivere, quest’uomo solo e, d’altro canto, legato a tutto» pag. 253.
L’autrice visita le rovine della villa di Adriano a 21 anni, avendo già scritto “Apparition”, una poesia in cui immaginava Antinoo apparire tra le rovine di quella, ossia in un luogo di grande potenza evocativa «…parliamo continuamente dei secoli che hanno preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi; mani che non esistono ancora carezzeranno i fusti di queste colonne» pag. 109.
Quanto alla forma sceglie quella epistolare, l’unica possibile per poter discettare su qualunque argomento; neanche quella di diario sarebbe stata così adatta, poiché un imperatore essendo a conti fatti un funzionario pubblico, deve sottoporsi al responso dei posteri qui rappresentati in primis da Marco Aurelio (a cui la lettera è rivolta), ma anche dal grande giudice che è la Storia incarnata nell’ecclesia dei lettori. Per questo ogni capitolo è costruito secondo i dettami della retorica che in greco s’intende come “l’arte del parlare in pubblico”.
Risolto il problema formale in maniera elegante e significativa, attraverso la penna della Yourcenar Adriano, superando le barriere temporali, può finalmente riprendere vita e giungere fino a noi: appaiono scenari vividi che, con la grazia poetica più aulica, ci illustrano la “gravitas” di uno dei più grandi imperatori di Roma, senza svincolarla però dall’uomo di cui, in una confessione aperta e senza veli, apprendiamo passioni e debolezze
«Regnavano in me…personaggi diversi…il letterato invasato, l’ufficiale meticoloso, il malinconico sognatore di dèi, l’amante pronto a tutto per un istante di ebrezza…il cortigiano ignobile che per non dispiacere accetta di ubriacarsi alla tavola imperiale…e ricordiamo pure quel personaggio vago, senza nome, senza posto nella storia, ma che è me stesso tanto quanto tutti gli altri» pag. 49.
La Yourcenar non disdegna di illustrarci l’altra faccia dell’uomo colto e raffinato, come quando Adriano spera nella morte di Lucio dopo averlo adottato, a causa della malattia del ragazzo; o quando seda nel sangue le rivolte dei popoli che non vogliono sottostare al giogo di Roma.
Con un chiaro intento didattico che mira ad istruire il giovane Marco Aurelio sull’arte di governare con saggezza, Adriano ripercorre la sua esistenza: la formazione di stampo ellenistico, gli incarichi politici, la nomina di imperatore, la sua politica, l’amore per Antinoo, il problema della successione.
Mirabili le affermazioni sulla Grecia «L’impero l’ho governato in latino…ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto…quasi tutto quello che gli uomini hanno detto di meglio è stato detto in greco» (pag. 34): viene in mente l’affermazione di Umberto Galimberti quando dice che i greci sono stati il popolo più intelligente che sia mai apparso sulla terra.
Sul medesimo tema «Intravvedevo la possibilità di ellenizzare i barbari, di atticizzare Roma, di imporre pian piano al mondo la sola cultura che un giorno si sia affrancata dal mostruoso, dall’informe, dall’inerte, che abbia inventato una definizione del metodo, una teoria della politica e del bello» (pag. 67); «La nostra arte, quella dei greci, ha preferito attenersi all’uomo. Noi soli abbiamo saputo mostrare in un corpo immobile la forza e l’agilità ch’esso cela; noi soli abbiamo fatto d’una fronte levigata l’equivalente d’un pensiero» pag. 112.
Non è da meno l’espressione successiva sull’importanza della cultura «Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire» pag. 109.
“Memorie di Adriano” è «la meditazione scritta di un malato che dà udienza ai ricordi» (pag. 21); è il punto di vista di un uomo libero nonostante il ruolo «Volevo trovare la cerniera ove la nostra volontà si articola al destino, ove la disciplina asseconda la natura…la vita per me era un destriero di cui si sposano i movimenti dopo averlo addestrato» (pag. 38); è l’espressione di chi nella vecchiezza sente appressarsi la morte «Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d’un palazzo troppo vasto, che un proprietario decaduto rinuncia a occupare per intero» (pag. 8); è la confessione più intima del suo rapporto con Antinoo, che si svela attraverso le parole del governatore Arriano;
qui la Yourcenar dà il meglio di sé chiamando in causa l’unico altro personaggio che, in tutta l’opera si esprime in prima persona: sarebbe stata una caduta di stile far parlare in questo frangente, colui che ancora una volta, viene posto sul banco degli imputati.
Così Arriano in una lettera al suo imperatore, dalla Piccola Armenia scrive «Achille in persona appare in sogno ai naviganti che visitano quei paraggi; li protegge, li avverte dei pericoli del mare, come altrove fanno i Dioscuri. E l’ombra di Patroclo appare al fianco di Achille…A volte, Achille mi sembra il più grande degli uomini per coraggio e forza d’animo, le doti dello spirito accoppiate all’agilità del corpo, e per l’amore ardente del suo giovane compagno.
E nulla in lui mi pare più grande della disperazione che gli fece disprezzare la vita e agognare la morte quand’ebbe perduto il suo diletto» (pp. 235-236); Adriano si limita a commentare «Arriano mi schiude il profondo empireo degli eroi e degli amici: non me ne giudica indegno» pag. 236.
Da notare che all’epoca il termine “omosessuale” non esisteva. Quella che oggi definiamo “omosessualità” non era tanto legata alle inclinazioni sessuali personali e private degli individui, dal momento che il rapporto, in genere tra un uomo adulto e un giovane, era volto all’educazione. La cosa era regolata per legge e dopo un certo numero di anni trascorsi nella casa del suo “istitutore”, il ragazzo poteva lasciarla per intraprendere la carriera politica, militare o nell’amministrazione pubblica e, volendo, divenire eterosessuale sposandosi. Perciò il rapporto fisico tra uomini, non era né tollerato, né tanto meno accettato dalla comunità, in quanto era ritenuto normale: non c’era un problema di carattere etico, poiché era l’aspetto educativo ad esserlo in sé.
Dalla lettera di Arriano in poi, inizia “Patientia”, ultimo capitolo, in cui il crescendo diviene straziante: Adriano si accomiata dal mondo con la regalità e la concretezza dei grandi uomini.
Si congeda come imperatore consegnandoci due lasciti visionari, il primo sulla nascita del potere della Chiesa, l’altro sul governo di Marco Aurelio «Se i barbari s’impadroniranno mai dell’impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci.
Cabria si preoccupa di vedere un giorno il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato di essere il capo di una cerchia di affiliati o di una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell’autorità» (pag. 248);
«Credo di offrire agli uomini l’unica occasione che avranno mai di realizzare il sogno di Platone, di vedere regnare su di loro un filosofo dal cuore puro»; e riconoscendo nel giovane Marco Aurelio un talento diverso dal suo, gli scrive «Non m’hai nascosto il tuo disdegno malinconico per questi effimeri splendori, per questa corte che si disperderà alla mia morte.
Tu non mi ami molto; il tuo affetto filiale va piuttosto ad Antonino…Non mi importa: non è necessario che tu mi comprenda. Vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo: non è male che esse si alternino» pag. 230.
E si congeda dal mondo come uomo, raccontandoci i dolori dell’anima «L’uomo che ha urlato sul petto di un morto continua a gemere in un angolo di me stesso» (pag. 246), ma anche gli effetti e il progredire della malattia: disperato Adriano si rivolge al giovane medico Giolla «Gli bastò un cenno per comprendermi; mi compiangeva…ma il suo giuramento ippocratico gli interdiceva di somministrare a un malato una droga nociva…rifiutò…insistetti; divenni perentorio; impiegai tutti i mezzi per tentare di impietosirlo o corromperlo; sarà lui l’ultimo uomo che ho supplicato.
Vinto mi promise infine di andare a prendere la dose del veleno. L’attesi invano… nella notte seppi con orrore, che l’avevano trovato morto nel laboratorio, una fiala di vetro tra le mani.
Quel cuore schivo da compromessi aveva trovato questo mezzo per restare fedele al suo giuramento senza rifiutarmi nulla» (pp. 238-239). Afflitto per questa morte di cui suo malgrado, è responsabile, decide di accettare con “Patientia” il suo destino, abbandonando l’idea del suicidio «È convenuto che è un imperatore si suicidi solo se è messo con le spalle al muro da ragioni di Stato…e il mio severo Arriano ammirerebbe assai meno la disperazione che mi trascino dall’Egitto, se non ne avessi trionfato…Ma so bene cosa significhi sfiorare voluttuosamente…la lama di un coltello…Ma la possibilità inalienabile del suicidio mi aiutare a sopportare l’esistenza con minor fastidio» (pag. 237);
«Mi sembra che la vita non abbia più niente da offrirmi; ma non sono certo di non aver più nulla da imparare da lei. Ascolterò sino all’ultimo le sue istruzioni segrete» pag. 240.
Il finale in cui Adriano “cerca di entrare nella morte ad occhi aperti” come recita un verso della sua poesia più famosa, è struggente e, per dirla in termini leopardiani, “muove al pianto”. Le ultime cinque righe costituiscono proprio quella poesia “Animula vagula blandula” (Piccola anima smarrita e soave), che rimane per i posteri impressa nel marmo all’entrata di Castel Sant’Angelo (il mausoleo di Adriano) e che, anche secondo la Yourcenar data la posizione in cui la colloca nel romanzo, differentemente dalla vox populi è da attribuirsi all’anima di Adriano nel momento del trapasso (pag. 249).
Se infatti fosse rivolta ad Antinoo, l’iscrizione marmorea sarebbe stata posta nel santuario a lui dedicato: del resto, entrando a Castel Sant’Angelo prima del 1951, chiunque l’avrebbe concepita in quanto scritta da Adriano a se stesso.
L’epigrafe che conclude l’ultimo capitolo poi, trasforma l’intera opera in un tributo all’imperatore. Se dunque il libro racconta le memorie di Adriano (la traduzione dal francese è impeccabile), l’opera della scrittrice è un memoriale dedicato al Divino Adriano Augusto.
Daniela Carletti
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