Un’Idea dell’India di Alberto Moravia | Recensione

Come ogni mercoledì sono felice di ospitare una nuovissima recensione a cura di Daniela Carletti – La sconfitta del tempo, che ringrazio tantissimo per la sua disponibilità. Daniela ci parla del libro Un’Idea dell’India di Alberto Moravia – Tascabili Bompiani.

Di cosa parla Un’Idea dell’India di Alberto Moravia ?

Idea dell'India Alberto Moravia
Un’Idea dell’India di Alberto Moravia

Il libro è il reportage di un viaggio fatto da Moravia nel ’61 in compagnia di Pasolini e della moglie Elsa Morante. Questo itinerario indiano consente a Moravia di offrire un’immagine viva e fuori dall’ordinario di un paese che faticosamente, tra mille contraddizioni, si avviava verso un moderno riscatto sociale. Quel che conta non sono tanto le notazioni paesistiche e di colore, ormai topiche, quanto lo smascheramento delle cause della falsa opulenza e della tragica indigenza del paese. La degenerazione superstiziosa di concezioni religiose come il brahamanesimo, il buddismo e il jainismo, non fanno che completare questo desolato quadro sociale.

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Recensione a cura di Daniela Carletti

Moravia è stato sempre descritto come un personaggio freddo e questo aspetto della sua personalità traspare anche fra le righe di «Un’idea dell’India».

Tuttavia, mentre la sua caratteriale freddezza può forse essere ricondotta ad un certo fastidio nei confronti del discorso parlato specie se intriso di quella banalità “borghese” che da buon neorealista non ha mai smesso di denunciare, in «Un’idea dell’India» essa, mescolata alla compassione e cioè «… il sentimento che si prova più spesso viaggiando in India» (pag. 18), trova la sua ragione d’essere nella percezione sensoriale della morte, come pure nella constatazione della morte stessa resa tangibile anche dallo scorrere delle spoglie lungo il corso del fiume sacro e dai roghi funebri.

Attraverso il sottile gioco di parole che compongono il titolo, l’India non è un luogo bensì un’idea, una delle tante.

Per Moravia è un’idea dell’esistenza e del modo di concepire la vita che, essendo nella visione indiana un inevitabile pellegrinaggio verso la morte, si esprime attraverso una lenta e costante decomposizione resa evidente nei processi della consunzione, dello sgretolamento, del disfacimento, per poi giungere infine a divenire polvere.

Moravia lo esplicita perfino parlando del paesaggio «… e infatti il carattere predominante di questo panorama poco pittoresco ma espressivo è una grandiosità funebre a cui l’immobilità perfetta dell’aria conferisce un senso di spossata attesa, di calma esausta» (pag.17).

Lo palesa apertamente giungendo nella città che si snoda per 4,5 km sulle rive del Gange in cui, tra i riflessi delle scalinate e dei palazzi rovinosi che ne delimitano le rive, ondeggiano verso un sogno di Nirvana i cadaveri senza nome di coloro che furono in transito «Parlare del senso della morte in India e non parlare di Benares sarebbe per lo meno singolare … in realtà è una città indiana come le altre … non meno medievalmente brulicante  e disastrosa di Calcutta o Hyderabad»;e ancora «Benares … immersa in una luce disfatta … come filtrata attraverso le cartilagini gialle di un teschio»(pag. 28).

O quando la sterminata schiera dei senzatetto tra i quali ai poveri si mescolano i profughi, si assopisce per le strade gelide delle notti tropicali, avvolgendo scarne ossa in succintisudari.

Nell’Introduzione che precede il racconto, Moravia più volte sollecitato dal suo interlocutore (cioè se stesso in quanto si tratta di un’autointervista), non dà una connotazione precisa di cos’è l’India. Dopo aver trascorso quarantacinque giorni tra disagi che è un eufemismo attribuire al clima e dopo aver cercato per un intero libro le parole più consone per trasmettere la sua idea dell’India, ridurre tutto ad una mera definizione, vuol dire trasformare la parola in una materia sterile.

Se proprio vogliamo una definizione netta e precisa, sembra volerci dire Moravia, possiamo prendere in prestito le parole di Albert Schweitzer che, contrapponendo la filosofia indiana al pensiero occidentale, pone l’accento su due atteggiamenti antitetici: l’affermazione del mondo e della vita da un lato, e la loro negazione dall’altro.

Un’idea dell’India di Alberto Moravia

Tipico dell’Europa il primo, in cui si tende a rendersi utili verso la società in nome del progresso, per l’uomo indiano invece, il mondo non è interessante poiché egli considera la vita terrena come una sorta di assurda commedia da recitare nel tempo che gli è dato vivere, allo scopo di raggiungere l’Eternità.

In realtà Moravia, che nell’Introduzione, forse per i motivi sopraddetti o forse per altri, si dimostra reticente nel fornirci una definizione, nel prosieguo del libro non disdegna affatto di soffermarsi su ogni singolo aspetto che concorre a fare dell’India ciò che essa è.

Ad esempio nel capitolo «Incubi e Miraggi» analizza attentamente il pensiero religioso indiano e non nasconde affatto che, in quella visione il mondo dei sensi sarebbe un’illusione, mentre invece nei Veda, i libri sacri scritti all’incirca 2000 anni prima di Cristo, il mondo dei sensi è considerato al contrario, ben reale.

Privato invece il popolo nella sua esistenza, di un supporto così potente come quello del mondo percettivo, a cui aggiungiamo anche la mancanza del sollievo che in altre culture si percepisce nel semplice rimirare l’arte che qui, invece, avendo orrore del vuoto ridonda di figure e pullula di ornamenti, tutto in India dove si contempla solo la dimensione dell’oltre vita, si traduce in sofferenza e incubo per l’indigenza, per le malattie, per la ferocia del clima, per la mancanza di una direzione da seguire rimanendo però ben relegati all’interno della costrizione imposta dal sistema delle caste.

In India dunque, nella dimensione terrena, tutto è lasciato a se stesso e non ha alcun senso cosa avviene durante il soggiorno obbligato. Anzi, il brulicare della vita in tutte le sue manifestazioni fosse anche quello degli agenti patogeni che prolificano sotto il sole nei cumuli di materiale organico, rappresenta in quella realtà, un valore imprescindibile nel ciclo delle rinascite.

Riguardo poi alla nostra percezione di quel mondo «La concezione indiana della vita rappresenta per l’europeo al tempo stesso un paradosso e una tentazione, …» (pag. 25), ma avverte Moravia, così come la nostra società è ammaliata di quello spirito indiano da cui ama farsi pervadere, al contrario l’altra, subisce lo stesso fascino nei confronti della nostra: si pensi al progresso scientifico e tecnologico, primo tra tutti il settore dell’Ingegneria Informatica che oggi, al tempo di chi scrive, vede l’India all’avanguardia nel mondo.

Resta sempre il fatto che, mettendo da parte l’esaltazione della fantasia e le sue aspettative «Via via che i chilometri crescono … e i luoghi tanto sognati sfilano, dapprima incerto e poi sempre più convinto, un senso di delusione si insinua nell’animo del viaggiatore in cerca di pittoresco … Nomi orientali che … gli avevano fatto sperare chissà quali magie esotiche» stanno invece ad indicare luoghi e città molto simili [ndr] «così che averne vista una vuol dire averle viste tutte» (pag. 65).

Accanto alla visione filosofica nel subcontinente indiano sono presenti molteplici realtà.

Come quella delle caste che sopravvivono nell’immaginario collettivo come un morbo e che oltre ad essere l’emblema di un razzismo arcaico tutto indiano (nonché del concetto di “impurità”), generano tuttora la povertà che a sua volta, dà vita ad un vero e proprio status sociale che si esprime nell’essere a pieno titolo mendicanti «l’elemosina è quasi un obbligo per chi la fa e quasi un diritto per chi la chiede» (pag. 20).

Come quella del sesso che trova la sua sola ragione d’essere nella misura in cui le persone umane si annullano per entrare in contatto con l’estasi cosmica.

Un’Idea dell’India di Alberto Moravia

Come quella politica in cui, la dimensione occidentale e quella indiana, convivono nel ’61 ancora forzosamente in una sorta di grottesca commistione, nelle vie di Nuova Delhi la città del potere fondata dagli inglesi, dove il colonialismo travestito da capitalismo, attende di poter vincere definitivamente la strenue battaglia imbracciata dai guru, contro l’insediamento del progresso occidentale che, promettendo pane, suggerisce la fine dell’indigenza alla popolazione locale.

E in questo scenario giocano un ruolo in secondo piano, ma non per questo meno rilevante, tutti (o quasi) coloro che pur essendo indiani di nascita, si sono formati nelle aule universitarie occidentali.

Come quella delle religioni, vera e propria piaga che storicamente si è abbattuta sull’India, e sulla quale, come un fuoco che cova sotto la cenere, gli inglesi non hanno esitato a soffiare. Fu l’odio tra le due religioni maggioritarie, l’Induismo autoctono e l’Islamismo d’importazione assai datata, ad essere il maggior responsabile della grande delusione del Mahatma Gandhi.

Su tutte queste realtà, sempre e comunque, si allunga inevitabile l’ombra della visione indiana con la quale ogni cosa, presto o tardi, deve fare i conti. Ed è per ciò che, al di là della strumentalizzazione che la politica ha operato sulla religione, persino i simboli dell’Induismo sono soggetti all’ostentazione della dissoluzione della materia «Ad ogni modo, come il tempio, anche il dio Siva sta morendo. E anch’esso, tra qualche secolo … sarà mangiato dalle onde e ridotto ad un sasso tra i tanti sulla spiaggia di Mamallapuram» (pag. 61), e, per finire con le parole di Moravia «ridotto a nulla».

Daniela Carletti

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