L’odore dell’India di Pier Paolo Pasolini | Recensione

Appuntamento del mercoledì con una nuovissima recensione a cura di Daniela Carletti – La sconfitta del tempo, che ringrazio tantissimo per la sua disponibilità. Daniela ci parla del libro L’odore dell’India di Pier Paolo Pasolini – Ugo Guanda Editore.

Di cosa parla L’odore dell’India di Pier Paolo Pasolini ?

Nel 1961, in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, Pasolini si reca per la prima volta in India. Le emozioni e le sensazioni provate sono così intense da spingerlo a scrivere queste pagine, un diario di viaggio divenuto un libro di culto.

Pasolini si aggira attento nella realtà caotica del subcontinente indiano, osservando i gesti e le movenze della gente, seguendo i colori dei paesaggi e soprattutto l’odore della vita. L’incanto di una terra ammaliante e l’orrore dell’esistenza che vi si conduce ci vengono restituiti dalla sua curiosità sensibile alle condizioni sociali, ma soprattutto con l’originalità della sua visione.

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Recensione L’Odore dell’India a cura di Daniela Carletti

“L’odore dell’India” è un’opera intimista essendo costellata di piccoli episodi riguardanti singole persone con le quali l’autore viene in contatto, durante il suo viaggio insieme ad Alberto Moravia ed Elsa Morante, in India nel 1961.

Se per certi versi questo carattere può apparire riduttivo rispetto al tema trattato, ciò denota la volontà di sottolineare sempre e comunque questo aspetto, indipendentemente dalla “realtà India” di per sé.

Pasolini entra nel vivo di piccole storie, come quando descrive l’uomo che attende pazientemente i resti del pasto di una famiglia sulla spiaggia, o quando racconta di Josep, otto figli a carico, costretto col suo risciò a «fare il cavallo, tra quelle due orribili, ripugnanti stanghe del suo carretto.» pag. 45.

O quando, come una goccia nell’oceano, con una carità (concetto del tutto estraneo all’India), tenta di “salvare” il piccolo Revi che però, non capisce da cosa debba essere salvato «Ogni volta che in India si lascia qualche persona, si ha l’impressione di lasciare un moribondo che sta per annegare in mezzo ai rottami di un naufragio» pag. 50.

O ancora quando tratteggia la propria interpretazione del sentimento altrui.

L’approccio di Pasolini verso l’India si focalizza sulla condivisione del dolore, sul rispetto della vita umana, sull’attenzione verso l’uomo indipendentemente dal contesto in cui è calato. Appare lampante come il narratore non si preoccupi affatto di sconfinare nel suo proprio sentire, intriso della sua cultura, attribuendo pensieri ad altri, che in sostanza sono i suoi «… proprio oggi […] celebriamo la festa della nostra indipendenza.

Ma quanta strada c’è ancora da fare! I nostri villaggi sono costruiti col fango e con lo sterco di vacca, le nostre città non sono che dei mercati senza forma, tutti polvere e miseria. Malattie di ogni genere ci minacciano, il vaiolo e la peste sono di casa, come i serpenti. E ci nascono tanti fratellini che non ce la facciamo a trovare un pugno di riso da dividerci. Cosa succederà di noi? Cosa possiamo fare? Però, in questa tragedia, resta nei nostri animi qualcosa che […] è quasi allegria: è tenerezza, è umiltà verso il mondo, è amore […] Con questo sorriso di dolcezza, tu, fortunato straniero, tornato nella tua patria ti ricorderai di noi, poveri indianini …» pag. 74.

Ben lungi dal domandarsi cosa sarà di loro e cosa fare, gli indiani del 1961 relegati in una casta specifica, non ravvisano la loro tragedia che peraltro è un concetto occidentale. Accettano invece la personale colpa, per aver meritato di reincarnarsi in una data situazione, nonostante il sistema castale sia stato abolito in India nel 1947, con la conquista dell’Indipendenza.

L’attenzione di Pasolini passa ancora per la condizione interiore dei singoli, sempre rielaborata alla luce di un’emotività soggettiva, quando ad esempio scrive «Mi è capitato spesso di cogliere qualcuno cogli occhi fissi nel vuoto, immobile […] Pareva quasi che avesse “capito” l’insopportabilità di quell’esistenza.» pag. 31; o ancora «La vita, in India, ha i caratteri dell’insopportabilità: non si sa come si faccia a resistere mangiando un pugno di riso sporco, bevendo acqua immonda, sotto la minaccia continua del colera, del tifo, del vaiolo, addirittura della peste» pag. 30;

«Eppure gli indiani si alzano, col sole, […] e rassegnati cominciano a darsi da fare […] non sono mai allegri: spesso sorridono […] ma sono sorrisi di dolcezza, non di allegria.» pag. 31.

Passa dai medesimi filtri di cui sopra, quando si addentra addirittura in un supposto imbarazzo che, francamente suscita molto più il senso del peccato di matrice cattolica, che non la religiosità indiana in senso lato «Il loro no che significa sì consiste […] in un gesto insieme dolce (che sta a significare, ndr) – Povero me, io dico sì, ma non so se si può fare –» pag. 33.

Si estranea totalmente dal contesto, quando descrivendo un nano intento in una danza rituale, non lo ravvisa come un qualunque altro indiano intriso di tristezza, sofferenza e dolcezza. Il nano, conoscendo per sua natura cos’è la bruttezza e dimentico delle sue origini geografiche, diviene un danzatore perfido e volgare che deturpa il rito stesso, trasformandolo in una sorta di caricatura (pag. 38).

Diviene riduttiva, sempre l’attenzione, quando analizza una condizione sociale senza inquadrarla nell’aspetto religioso che, in India, pervade la società in tutti i suoi aspetti, molto più che in altre realtà geografiche.

Cosicché assistiamo ad un’analisi dai toni piuttosto nostrani «In sostanza si tratta di un enorme sottoproletariato agricolo, bloccato da secoli nelle sue istituzioni dalla dominazione straniera» pag. 61, in cui l’autore “dimentica” lo statu quo del sistema castale, che determina nei singoli individui la convinzione di dover necessariamente appartenere alla propria casta, per espiare il male commesso in una vita precedente.

Crediti – Culturificio | L’odore dell’India di Pier Paolo Pasolini

Insiste ancora sul tema parlando di borghesia, quando paventa la possibile evoluzione della neonata classe sociale indiana «Tutto c’è da augurare a questo popolo fuorché l’esperienza borghese, che finirebbe col diventare di tipo balcanico, spagnolo o borbonico» pag. 71, dimentico delle ben più temibili convinzioni religiose radicate da qualche millennio nelle coscienze.

Pasolini sa benissimo che questa classificazione della società è del tutto estranea all’India, ma fra le righe traspare l’affermazione di sé “Io sono questo, sono un prodotto occidentale, vengo dall’Europa e il mio modo di vedere le cose è la mia cultura.”

Infatti, anche sulla religione, risolve rimanendo ancora una volta nell’intima condizione dell’animo «Viste a distanza le masse indiane si fissano nella memoria, con quel gesto di assentimento, e il sorriso infantile e radioso negli occhi che l’accompagna. La loro religione è in quel gesto.» pag. 33.

È lo stesso Pasolini che sull’Induismo, invita a leggere Moravia, mentre dal canto suo ne ricava una visione che è solo apparente «… ho cercato di parlare di questo con molti indù: ma nessuno ha neanche la più pallida idea […] Essi hanno forse perso contatto con le fonti dirette della loro religione» pag.42.

Ma poi a suo modo e per un attimo, arriva al concreto «Si giunge addirittura a una specie di paradosso: gli indiani sono attualmente un popolo pratico (che ha fatto della propria religione un modo di vivere, ndr)» pag. 42, poiché come afferma Moravia nell’intervista concessa a Renzo Paris «Gli indiani sono il popolo più indifferente di fronte alla sofferenza, che io conosca al mondo.»

L’osservazione del narratore, sempre protesa sull’immaginario abisso in cui soggiorna l’animo dei singoli, solleva ora lo sguardo a descrivere situazioni nella loro interezza «Questa enorme folla vestita praticamente di asciugamani, spirava un senso di miseria, di indigenza indicibile, pareva che tutti fossero appena scampati a un terremoto, e, felici per esserne sopravvissuti, si accontentassero dei pochi stracci con cui erano fuggiti dai miserandi letti distrutti, dalle infime catapecchie.» pag. 15;

«… mi trovo davanti a uno dei fatti più impressionanti dell’India. Tutti i portici, tutti i marciapiedi rigurgitano di dormienti. Sono distesi per terra, contro le colonne, contro i muri, contro gli stipiti delle porte. I loro stracci li avvolgono completamente, incerati di sporcizia. Il loro sonno è così fondo che sembrano dei morti avvolti in sudari strappati e fetidi.» pag. 18.

Man mano che il viaggio di Pasolini, con una sorta di fare discreto si addentra nel cuore indiano, il poeta viene a poco a poco in contatto con le situazioni più scabrose «… il solito altissimo odore che mozza il fiato. Quell’odore di poveri cibi e di cadaveri, che, in India, è come un continuo soffio potente che dà una specie di febbre. È quell’odore, che, diventando un po’ alla volta una entità fisica quasi animata, sembra interrompere il corso normale della vita nei corpi degli indiani.» pag. 59.

È in questo modo e quasi in punta di piedi che, giunge in ultimo, come spesso accade nella vita, a confrontarsi con una realtà che è impossibile disattendere, quella della morte «Ecco i corvi, sempre presenti per tutta l’India col loro grido cieco…» pag. 67;

«Nell’acqua del Gange si immergono i cadaveri prima di bruciarli, […] si buttano, non bruciati, ma sistemati tra due lastroni di pietra, i santoni, i vaiolosi e i lebbrosi, […] galleggiano tutti i rifiuti e le carogne di una città che praticamente è un lazzaretto, perché la gente ci viene a morire. Ebbene, in quest’acqua, si vedono centinaia di persone che si lavano accuratamente, tuffandosi beate, restandovi immerse fino alla cinta, a sciacquarsi mille volte, a lavarsi la bocca e i denti» pag. 84.

Per questo la descrizione di quanto avviene a Benares (detta anche Varanasi), la città dove si va a morire, “la splendente”, diversamente che in Moravia, è riportata al termine del testo.

Superando la realtà di ogni luogo, Pasolini considera l’uomo prima di tutto, osservandolo e indagandolo in ogni situazione, per tutta la durata di un viaggio che il poeta compie in primo luogo dentro di sé, per arrivare a stabilire finalmente un punto di contatto e quindi a percepire che, nonostante tutto, esiste un diverso modo di concepire la vita che, essendo in funzione della morte, viene vissuta in India, senza pena, come del resto e più ancora, la morte stessa

«Intorno ai roghi vediamo accucciati molti indiani, coi loro soliti stracci. Nessuno piange, nessuno è triste, nessuno si dà da fare per attizzare il fuoco: tutti pare aspettino soltanto che il rogo finisca, senza impazienza, senza il minimo sentimento di dolore, o pena, o curiosità […]

Non c’è nessun odore, se non quello, delicato, del fuoco […] avvicinandoci, ci rendiamo presto conto di provare la piacevole sensazione di chi sta intorno al fuoco, d’inverno […] Così, confortati dal tepore, sogguardiamo più da vicino, quei poveri morti che bruciano senza dar fastidio a nessuno. Mai, in […] tutto il nostro soggiorno indiano, abbiamo provato un così profondo senso di comunione, di tranquillità e, quasi, di gioia.» pag. 110.

Daniela Carletti

Confronto Moravia-Pasolini sulle cronache indiane

Certo, Moravia ha avuto qualche decennio per pensarci, essendo quello del ’61 il suo secondo viaggio in India.

Ma a conti fatti il modo di porsi dei due personaggi nella loro osservazione dell’India, è radicalmente e volutamente opposto.

Pur non esimendosi mai dal particolare, Moravia getta uno sguardo d’insieme sullo scenario del subcontinente indiano, preciso e dettagliato, ma non per questo meno sensibile o toccante dell’altro. Anzi, come afferma Renzo Paris, c’è da domandarsi se, paradossalmente, non sia più indiana l’indifferenza di Moravia, che non la carità di Pasolini.

Moravia conclude il suo viaggio con la visione del nulla, fermandosi però, da ateo, sulla soglia del Nirvana. 

Pasolini invece, che si discosta raramente dal particolare e dall’animo dell’essere umano, mescola ad esso il proprio, ed è in tal guisa che procede passo, passo, verso l’acquisizione intima di ciò che è veramente l’India.

Soltanto infine, grazie a un’atmosfera a lui riconoscibile, giunge a percepire a livello sensibile, come sia possibile concepire vita e morte, in una maniera del tutto diversa da quella che conosciamo in occidente.

La vera differenza perciò tra le opere dei due grandi autori, sta nel tipo di viaggio che essi compiono. Moravia entra obiettivamente nei luoghi dell’India ponendo al centro di tutto la morte. Pasolini invece, compie una peregrinazione del tutto personale, sperimentando nell’arco di un viaggio che soltanto in India può essere possibile, il sopraggiungere sereno della morte, attraverso la vita.

Daniela Carletti

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