Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas | Recensione

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Trama Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas

“Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima. A volte molto prima. Sono bastate poche parole: ‘Suo figlio probabilmente è autistico’”.

Il verdetto di un medico ha ribaltato il mondo. La malattia di Andrea è un uragano, sette tifoni. L’autismo l’ha fatto prigioniero e Franco è diventato un cavaliere che combatte per suo figlio. Un cavaliere che non si arrende e continua a sognare.

Per anni hanno viaggiato inseguendo terapie: tradizionali, sperimentali, spirituali. Adesso partono per un viaggio diverso, senza bussola e senza meta. Tagliano l’America in moto, si perdono nelle foreste del Guatemala. Per tre mesi la normalità è abolita, e non si sa più chi è diverso. Per tre mesi è Andrea a insegnare a suo padre ad abbandonarsi alla vita. Andrea che accarezza coccodrilli, abbraccia cameriere e sciamani. E semina pezzetti di carta lungo il tragitto, tenero Pollicino che prepara il ritorno mentre suo padre vorrebbe rimanere in viaggio per sempre.

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Recensione di Daniela Carletti del romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas

Edizione speciale dieci anni con venti fotografie originali del viaggio di Franco e Andrea – Fulvio Ervas

«Il coraggio di un padre»

In “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas, Edizioni Marcos Y Marcos, Franco il narratore protagonista, compie molteplici viaggi: quello on the road per migliaia di chilometri insieme ad Andrea, il figlio affetto da autismo, quello dentro di sé senza cercare di evitare il dolore che questo comporta, quello che cerca di entrare nell’universo di suo figlio che, a volte rivela piccoli spiragli attraverso i quali chi è all’esterno, crede di poter comprenderne la dimensione.

Nel libro l’autismo viene definito come tante cose. Una delle più calzanti è l’associazione con il deserto inteso come scarsità di relazioni, come monotonia e silenzio, ma anche come la vita che pur di esistere, accetta di perdere pezzi di sé (pag. 91).

A volte chi osserva l’autismo, tende umanamente ad addentrarsi in sconsolate considerazioni “… le gocce. Sono cadute per centinaia di metri, in silenzio” (pag. 104). A volte ritrovando la speranza, cerca di illudersi che si tratti di una realtà variegata per comprendere la quale ci vuole una percezione superiore.

Ma come osserva il protagonista, al di là di tutte le convinzioni più o meno rassicuranti, i due mondi sono come “due fiumi che si sfiorano senza mai mescolare le loro acque” (pag. 240).

In realtà, come ci vuole far intendere l’autore, è molto difficile farsi un’idea concreta dell’autismo, perché per quanto si azzardi, non sono mai le piene e compiute sensazioni di chi lo vive in prima persona, ma di coloro che gli vivono accanto, immaginando e interpretando di volta in volta, a seconda delle situazioni, del proprio stato d’animo, delle proprie paure, della propria forza soggettiva.

La forza in effetti, può fare la differenza; la forza dell’amore e quella di decidere di avere coraggio anche quando tutto appare contro. Mi viene in mente una storia riportata in “Amori” di Enzo Biagi, in cui una donna alla fine della Seconda Guerra Mondiale, va a cercare suo marito al fronte in Iugoslavia. Trovandolo senza gambe se lo carica sulle spalle, e a piedi, un po’ alla volta, lo riporta a casa.

Uno degli aspetti più evidenti nella narrazione, è la velocità. Non solo perché l’autore predilige spesso il racconto in veste di cronaca, ma anche perché la rapidità del viaggio, è una folle corsa verso l’ignoto e contro il destino, come se grazie ad essa si potesse sfuggire alla malattia “Andrea ci ha iscritti alle olimpiadi di salto in lungo dal problema alla soluzione” (pag. 97).

Nessun pericolo del resto, può essere più grande della malattia in sé. Il rincorrere luoghi e situazioni, il lasciarsene alle spalle altri con una velocità folgorante quasi per esorcizzare il male, incarna una corsa attraverso le strade del mondo con la speranza più o meno consapevole di poter arrivare in un posto in cui, finalmente,  si può scoprire che l’autismo si è dissolto.

Illudendosi perfino che anche il proprio figlio un giorno, potrebbe farsi una famiglia, avere dei figli e vivere una vita abbastanza normale (pag. 236).

Ma la spietatezza della realtà è sempre in agguato nella coscienza. Verso la fine del romanzo il padre dice “Devo essere sincero con me stesso: mi aspettavo qualcosa e adesso mi pare che sia stato tutto inutile” (pag. 262).

Franco, senza veli, confessa spesso di perdere la pazienza, perché, vittima del proprio dolore, non riesce ad accettare la condizione del figlio. Ciò nonostante si domanda “se serva più un’infinita pazienza o ruvide rampogne” (pag. 262), nella speranza che scuoterlo, possa essere utile.

Il risultato inevitabile è un’alternanza di atteggiamenti in contrasto, ai quali soggiace senza riuscire a sceglierne uno. Perciò nei molteplici aspetti in cui si agitano gli animi di coloro che vivono di riflesso la condizione dell’autismo, emerge talora l’urgenza di adoperarsi senza riserve, per cercare di lenire la sofferenza, nella consapevolezza di aver tentato l’impossibile.

Esiste tuttavia tra le righe una chiave di lettura dell’autismo, diversa da quella che percepiamo nel mondo occidentale, poiché la definizione geografica del sociale comporta problematiche diverse e diversi modi di considerare le cose. Jorge, il ragazzo autistico che vive in un tugurio in Costa Rica è felice, a detta di Andrea. L’asserzione va letta nel senso delle diverse realtà, cosicché assistiamo a un diverso autismo, di matrice occidentale e non.

Laddove in uno vige un assenteismo in termini di servizi resi però necessari dall’assetto del sociale pieno di solitudini, nell’altro, il senso della collettività che pure da noi esisteva ancora nell’immediato dopo guerra, si fa carico in maniera del tutto logica e spontanea, della sussistenza di coloro che nel nostro mondo, siamo improvvidamente portati a considerare come “diversi”. Bellissima in questo senso, l’esternazione di un personaggio, Odisseus, che nella sua semplice realtà, non considera affatto l’autismo come una malattia, ma come una diversa manifestazione dell’essere, a cui attribuisce la medesima importanza delle altre (pag. 271).

Daniela Carletti

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